Monod

Il Premio Nobel di letteratura, come si sa, viene dato a caso; guardando la lista dei premiati, ormai abbastanza lunga da giustificare una possibile legge – induttiva – di selezione, si scorge che la sola condizione, quasi, richiesta ai selezionati è quella di aver pubblicato un libro e che il libro sia stato tradotto in svedese. Lo stesso non accade in genere per i premi Nobel scientifici: per averne uno, di questi premi, bisogna aver fatto qualcosa di speciale, nel campo prescelto.

Questa diversità si spiega facilmente: la letteratura è il dominio della menzogna e dell’immaginario, e per consanguineità sono queste due pregiate componenti a dare il più delle volte valore alla critica; ma in maggior misura la prima che non la seconda. E se la critica mente, mentirà pure il premio che la critica conferisce. Le scienze della natura, invece, non sanno che farsene della menzogna o della fantasia irrazionale, per lo meno quelle scienze che dal Nobel vengono considerate; soprattutto fisica e chimica: medicina è meno rigida.

Non che la pura fantasia non possa venir accolta, perfino da fisici e biologi, in quei settori precipuamente conoscitivi senza scopo pratico (come è accaduto d’altronde nel corso dei precedenti millenni speculativi); ma è tale il peso di quella parte delle scienze avente come scopo ultimo l’applicazione, che il metodo scientifico, non potendo di solito sdoppiarsi nei cervelli dei ricercatori, rimane quello tradizionale di Francis Bacon, fondato sulla prova, sia pure con tutte le diffidenze che alla prova riserva la moderna epistemologia. Il fatto è che questo metodo ha funzionato, come mai si era visto nella storia, traendoci dalle tenebre fino al recente libro di Ceronetti, un vero prodigio di fotoscopia, di tecnica elettronica applicata alla elaborazione della polpa vegetale e alla stampa di precisione. Quanti alberi saranno morti per fare un’edizione di Ceronetti, è un altro argomento.

Difatti la fisica non accetta Wilhelm Reich come scienziato, non perché la scienza sia caduta nelle mani di una banda – peraltro sterminata: ci sono più uomini di scienza oggi in vita di quanti ce ne siano stati nella storia del mondo – di cattivi, come sostengono gli affettuosi seguaci dello psichiatra a un tratto diventato fisico nucleare, ma semplicemente perché le esperienze da lui descritte nessuno ha potuto ripeterle; essendo irripetibili, sono esperienze mistiche, e alla mistica viene riconsegnato il secondo Reich.

D’altra parte non manca, tra gli uomini di scienza, e non è mai mancata, la nuova mistica. Da Democrito a Einstein molti si sono posti dei “perché?” che non volevano credere vietati. Sembra sia insita nella struttura delle lingue indoeuropee questa possibilità di annodare paradossi insolubili e minacciosi, questa facoltà di creare domande puramente grammaticali. Anche dopo il teorema di Gödel, più di uno ha continuato a cercare ciò che per analogia si potrebbe chiamare “testimonianze attendibili sull’esistenza storica di Gesù”.

Mesi fa comparve in Italia un libro di buona vendita (“Il caso e la necessità”, Mondadori), del premio Nobel Jacques Monod; il quale libro è stato chiamato ingenuo, e ingenuo appare. Questa ingenuità, inattesa in un esperto di genetica molecolare, non è l’unico motivo del fastidio che il saggio suscita in rari ma definiti lettori. Per incominciare, è scritto in un tono irritante, tra la predica lacrimosa e la tersa pagina francese primo novecento: «È il cesello dello scultore che fa emergere dal marmo le forme di Afrodite, ma la dea, lei, è nata dalla schiuma delle onde» (pag. 73 à propos di proteine globulari); «Bergson, artista e poeta quale egli era, non poteva non essere sensibile alla sfolgorante ricchezza della biosfera». Tra i suoi autori favoriti, l’etologo K. Lorenz, quello che ha proposto ai popoli il calcio come festoso surrogato della guerra; la prima pagina del volume porta un’ottimistica epigrafe di Albert Camus, uomo corretto, pensatore scorretto.

Ora è uscito, in quel libro nato per volteggiare a lungo sulle sabbie di un’estate intranquilla, “Adelphiana 71” di Adelphi, un saggio su questa opera di Monod, di Giuseppe Trautteur, professore a Napoli. Il saggio si intitola, ingegnosamente, “Il caso o la necessità”; dopo la sua lettura non rimane altro desiderio di accostarsi, se non per cattiveria, al Monod. Anzitutto emerge più chiaramente, paragonando le fonti di informazione e il tipo di informazione dello studioso italiano e quello del ricercatore francese, e l’uso che di questa informazione fanno entrambi, la consapevolezza già intravista: che il Premio Nobel abbia fatto una sortita non richiesta in un campo in cui ben altre precauzioni e attrezzature sarebbero state necessarie. Si cercherà qui di presentare alcuni aspetti, tra i più appariscenti, del vagabondaggio mistico di Monod, che umanitariamente Trautteur nel suo saggio ha trascurato.

Fin dall’inizio si scopre che l’autore non possiede quasi nessun dono espositivo: considera il lettore un amabile cretino e gli tende piccole trappole. A pagina 18 propone i criteri per un programma che permetta a un calcolatore di distinguere un artefatto da un oggetto naturale. «Risulta subito evidente che i criteri da adottare sarebbero due: 1) regolarità; 2) ripetizione» (la loro assenza, è presupposto, determinerebbe il carattere naturale di un oggetto). Il biologo manda avanti per due pagine questa burla; il lettore nel frattempo cerca di far tacere la voce interna che gli ricorda che nulla è più regolare e ripetitivo della natura (infatti i ricercatori marziani o venusiani, con non comune fantasia immaginati da Monod, potrebbero dedurre, dal loro elaboratore così program­mato, che i fiori, l’erba e i pesci e i passeri sono artefatti, e che gli artefatti invece, essendo nel loro disordine inclassificabili, sono oggetti naturali); alla fine, a pag. 20, Monod tira fuori un favo di api e conclude che in realtà non si può sapere, su due piedi, che cosa sia un artefatto. Sorge l’ipotesi che questo breve episodio didattico celi uno scoraggiato riassunto dell’intero libro.

Scoraggiato il libro e scoraggiato, per quanto cerchi di fischiare nel buio, l’autore; anzi, disperato dalla angoscia, a tratti (giusta filiazione Camus). «Io stesso, non avendo più nulla nel campo della coscienza, a forza di concentrare l’attenzione sull’ espe­rienza immaginaria, mi sono sorpreso nell’atto di identifi­carmi con una molecola proteica» (p. 126); come lui stesso dice della creazione del mondo, da un evento così unico riesce difficile dedurre una qualsiasi legge. «La comparsa dei vertebrati e la loro meravigliosa espansione... trae proprio origine dal fatto che un pesce primitivo scelse di andare a esplorare la terra, sulla quale era però incapace di spostarsi se non saltellando in modo maldestro... Tra i discendenti di questo audace esploratore, di questo Magellano dell’evo­lu­zione... alcuni hanno conquistato l’aria realizzando, prolungando e ampliando in modo prodigioso il sogno di quel pesce ancestrale» (p. 105); forse è da ringraziare Magellano, il nostro pesce antenato, non tanto per le sue bizzarrie, quanto per l’aver introdotto la scelta in questo mondo casuale.

Un ambiente dove sembra abbia senso ancora per uno scienziato discutere (con ragionamenti perfino inadeguati) la validità del marxismo scientifico. Al riguardo osserva, più aperto alla realtà, Giuseppe Trautteur: «Il metodo di Monod ricorda quello del Concilio di Trento: le teorie avversarie sono ridotte ad alcune proposizioni, talvolta numerate, che poi vengono distrutte. E bisogna dire che l’esercizio, seppure impietoso, è giustificato e sotto un certo aspetto divertente. Aspetti tutt’altro che divertenti, però, ha avuto l’effettiva imposizione in URSS di quelle teorie qui ridicolizzate. Tuttavia negli ultimi anni sembra si sia formata nelle menti degli uomini di scienza di sinistra, e sembrano essere la maggioranza, una specie di dicotomia che permette la coesistenza pacifica del riduzionismo fisicalista al livello della natura inanimata e del materialismo dialettico al livello della natura sociale e umana. Ad ogni modo i marxisti più cauti, attivi nel mondo della scienza, oggi quelle teorie non le sostengono più»; e più avanti: «C’è l’ideale socialista, che, sia pure con un forte sapore di imperativo kantiano, tradisce in Monod un apprezzamento di fondo per quei nemici che tanto combatte sul piano epistemologico. È lecito porsi la domanda se valesse la pena di distruggere l’avversario su un certo piano, trascinandosi appresso tutto il suo sistema, per giungere a proporre, sul piano filosofico, una visione del mondo consistente in austerità e problematiche speranze».

Si veda a p. 83 di “Caso e necessità”: «...le proteine globulari; in un senso molto reale, il segreto della vita, se esiste, si deve trovare a questo livello di organizzazione chimica. E se si sapesse non solo descrivere tali sequenze, ma enunciare la legge di associazione a cui obbediscono, si potrebbe affermare che il segreto è svelato, l’ultima ratio scoperta». In superficie, il libro tende a illustrare l’idea che la vita è sorta per caso ma che quel caso per fortuna era necessario; sotto la superficie, si tratterebbe però di altra cosa: di annunciare cioè al lettore che la vita possiede come si sa un grosso segreto, che questo segreto è simile a una cipolla e che i biologi ricercatori, una tunica dopo l’altra, riusciranno infine ad assottigliarla fino a rivelarci qualcosa molto interessante e soprattutto di immediatamente riconoscibile; come il linguaggio dei codoni o triplette, per esempio, in cui è scritta la nostra storia, ultima metamorfosi dell’omuncolo medievale. Queste vaghe pretese sono comprensibili nel­l’uomo, meno comprensibili nell’uomo di scienza.

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