Proposto anni fa per una comunità di formiche, il principio totalitario del romanziere inglese T. H. White ha trovato applicazione nel campo della fisica. Il principio di White postula che “tutto ciò che non è vietato, è obbligatorio”. Metafisicamente, qualcosa del genere aveva suggerito Leibnitz. In fisica, questo vuol dire che se una cosa è concepibile e non contraddice le leggi di natura, quella cosa esiste, deve per forza esistere.
Su questa base, improbabili oggetti sono stati immaginati, e ricercati, come i tachioni (particelle più veloci della luce) e i quark; molti altri ne sono stati trovati, dai neutrini di Fermi all’antimateria alle stelle neutroniche. Come dire: se un centauro non contraddice le leggi della biologia, in qualche luogo dell’universo ci dev’essere un centauro; invece un angelo, così come da mille anni viene raffigurato, non può esistere, perché per muovere le ali, gli occorrerebbero muscoli adatti e per sostenere questi muscoli un grosso sterno sporgente, come negli uccelli, ma allora le braccia sarebbero superflue, vano ingombro che la normale filogenesi angelica ridurrebbe presto a monconi.
Curiosamente, lo studio dell’universo, sia macroscopico che microscopico, propone più misteri concreti di quanti ne possa proporre l’immaginazione teorica. Stranamente, fuorché nelle frange estreme, questi misteri appaiono collegati e intrecciati tra di loro mediante leggi, sia pure provvisorie, che nell’insieme resistono alle prove e comunque, quando non resistono più, vengono opportunamente modificate; questo si chiama realtà del mondo fisico e finché serve, serve. I calcoli combaciano e della realtà reale che – forse, in qualche modo – sottostà al calcolo, il massimo che si può dire è che di solito sembra adeguarsi abbastanza bene al calcolo; ciò non vieta – anche se il fatto apparirebbe piuttosto insolito – che, dopo aver calcolato per un secolo con successo la forza di propulsione dei battelli a vapore, si possa scoprire che in una realtà più reale i piroscafi si spostano e si sono sempre spostati da un porto all’altro mossi soltanto dalla forza di volontà del Grande Mufti del Cairo.
Se poi dal tangibile quotidiano si passa all’intangibile degli spazi stellari, non resta che affidarsi al calcolo e apprezzarne la coerenza; col solo calcolo, Herschel scoperse nel settecento un pianeta non piccolo – chiamato “Giorgio” i primi tempi per onorare Giorgio d’Inghilterra – e altri nel novecento hanno pesato la Luna con sorprendente accuratezza.
Penultimo dei misteri del cielo (l’ultimo è invece quello dei pulsar, scoperti tre anni fa), i quasar sono – o si suppone che siano – gli oggetti più lontani dell’universo; nell’insieme della grande espansione del creato, si allontanano da noi alla velocità quasi della luce (circa 250.000 chilometri al secondo i più veloci). Quindi sono quasi tutti morti, invisibili, scomparsi ormai.
Si crede, infatti, oggi più che mai, che l’universo, raccolto prima in un punto o in un volume minimo, sia esploso e abbia dato inizio alla sua espansione circa dieci miliardi di anni fa: ne nacquero miriadi di galassie (tra cui la nostra), di radio-galassie e di quasar. Poiché la luce di qualsiasi oggetto che vediamo impiega un certo tempo ad arrivare, si può calcolare che le galassie più lontane ci appaiono oggi come erano uno o due miliardi di anni fa, cioè, otto o nove miliardi di anni dopo la nascita. I quasar, invece, visti ora come erano otto o nove miliardi di anni fa, sono molto più giovani: hanno soltanto uno o due miliardi di anni d’età. Si capisce che nell’intervallo, mentre la luce percorreva quelle distanze, i quasar hanno avuto il tempo non solo di allontanarsi, forse all’infinito o quasi, ma di estinguersi, di scomparire insomma, ammesso che la parola scomparire abbia ancora un senso per ciò che non può in alcun modo apparire.
I primi quasar, scoperti da Allan Sandage e Maarten Schmidt nel 1961, emettevano onde radio; vennero perciò chiamati “fonti-radio quasi stellari”; da qui l’abbreviazione “quasar”. Secondo Schmidt, ce ne dovrebbero essere in vista parecchi milioni; di questi, ne esisterebbero ancora in realtà – realtà comunque non percettibile – trentacinquemila; gli altri saranno diventati galassie, forse, o corpi estinti. Per di più, siccome i meno luminosi potrebbero essere anch’essi galassie ordinarie, stringendo i conti si può dire che l’universo contiene all’incirca non più di tremilacinquecento quasar. Nel cielo, però, se ne vedono quasi quindici milioni.
Se è vero che si trovano così lontano, dovrebbero emettere cento volte più luce di un’intera galassia normale, costituita da centinaia di miliardi di stelle. Siccome la loro luce varia, nel giro di pochi giorni in certi casi, bisogna per ovvie considerazioni geometriche supporre che questa massa enorme, o la sua parte variabile, siano concentrate in pochissimo spazio, qualcosa come il nostro piccolo sistema solare. Se in una stella neutronica una matita pesasse un miliardo di tonnellate, siamo ancora nel campo dell’immaginabile: il fascino dei quasar consiste piuttosto nell’essere praticamente inconcepibili, quasi sicuramente scomparsi, e più spesso che fonti-radio, fonte di dispute e di stupori.
Qualcuno affermò che si trattava in realtà di oggetti locali, appartenenti cioè alla nostra galassia; furono fatti i calcoli e venne fuori che, se così fosse, da miliardi di anni la galassia nostra si sarebbe svuotata. Un altro sostenne trattarsi di corpi non lontani, di enorme massa compressa in poco spazio; i calcoli dimostrano che, in tal caso, per essere visibile, il quasar doveva trovarsi a soli dieci chilometri, ch’è la distanza tra Monte Mario e l’Eur. D’altra parte, qualcosa ci deve pur essere ai confini dell’universo; ciò che stupisce è che quel qualcosa sia visibile.