"Maestro del passato" di R. A. Lafferty

È noto che la tecnica (o l'arte) della traduzione è in Italia molto più curata o comunque accurata di quanto non lo sia in altri paesi come per esempio la Spagna e la Francia. Ciò da una parte rappresenta un danno, perché disponendo di buone traduzioni, che pur sempre traduzioni rimangono, il lettore non è portato a imparare le lingue europee per leggere i testi originali: con esiti forse catalettici, come lo sarebbe senz'altro il pertinace accostamento all'intera letteratura mondiale nella sua veste italiana. Basterà semplicemente ricordare il caso di uno dei migliori racconti di Kafka, pubblicato da noi da due case editrici diverse, nel quale il protagonista, all'inizio del racconto, sta leggendo in una versione una lettera che gli ha scritto un amico, e nell'altra versione è lui a scrivere la lettera.

Non la stessa cura è prevalsa nel trattamento di interi generi che a un certo punto in passato furono dichiarati, per un motivo culturale o l'altro, secondari: i quali vennero perciò presentati in modo atto piuttosto a confermarli inesistenti. Di questi generi i più danneggiati, proprio perché i più popolari, furono dapprima quello poliziesco, poi quello assurdamente ma forse durevolmente denominato fantascientifico. All'intensa e raffinata produzione poliziesca inglese si preferì quella notevolmente più grossolana nordamericana; ma sia da una parte che dall'altra si scelsero gli autori peggiori (basterebbe come esempio fare il nome di Edgar Wallace) i quali rimasero peraltro affidati a traduttori cannibali e stampati in librettini scadentissimi liberamente chiamati dagli edicolanti giornaletti. Col risultato che ciò che il professore di Oxford leggeva per svago, qui lo legge per svago il garzone del bar, il che poteva essere un vantaggio, viste le cose che nel frattempo qui leggevano i professori, non fosse stata la traduzione criminale che rendeva del tutto inutile qualunque considerazione di carattere socio-culturale.

Tanti furono i romanzi polizieschi di piacevole quando non pregevole fattura trascurati dalle case editrici specializzate – sempre in base all'idea guida che il popolo italiano sia completamente incapace di manifestare un qualsiasi interesse per le costruzioni della intelligenza, dal momento che la sola cosa che gli interessa è l'apparenza – che si potrebbe ancora fare una collana poliziesca di inediti, uno al mese, degna senza dubbio sia della considerazione della critica che del favore del pubblico. Se lo stesso vuoto non si è prodotto nel campo peraltro molto più frequentato della fantascienza, in gran parte lo si è dovuto a Fruttero e Lucentini, due uomini di eccezionale intelligenza e come dice l'epigramma funebre «di mai più immaginabile larghezza di vedute». Anche così, rimangono ancora se non i due terzi almeno i due quarti della fantascienza da riscattare.

Altri si sono sommati al compito. L'Editrice Nord, milanese, ha affidato a Riccardo Valla, già assecondato da Renato Prinzhofer, la cura di una collana di riscatto di questo tipo, intitolata "Cosmo-Classici della Fantascienza", che si affianca alla collana "Cosmo" soltanto, di opere del genere ma contemporanee. Gli ultimi libri pubblicati in queste due collane – che in realtà sono una sola, essendo così poco importante al godimento della lettura la data in cui questo o quel libro di immaginazione sono stati scritti – sono certamente da raccomandare, anche per la maggior cura posta nella traduzione e nella scelta degli autori.

È strano: questo è il paese in cui è stato inventato il concetto assolutamente originale, in architettura, della facciata poco rispondente o interamente non rispondente all'edificio che vi si trova dietro. Questa caratteristica nazionale, la cui importanza è da tutti valutata ma che sopravvalutata non lo sarà mai abbastanza, ha condotto, per lo meno nel campo architettonico, a risultati splendidi. Non ce la sentiamo di dire lo stesso nel campo del romanzo. Tutti quei romanzi che si vendono dalle ottantamila alle centocinquantamila copie, e che si prendono tutti i grossi premi, e che aprono perfino le porte alla presidenza di enti insospettabili come l'eni, l'enpas o il Wildlife Fund, sono del tutto illeggibili, raccontano delle vicende psicologiche che psicologicamente non stanno né in cielo né in terra, quando non vicende ideologiche che ideologicamente stanno al livello stesso dell'inferno. Chi li legge? Conosco molti dei critici che li recensiscono come se fossero capolavori, e posso assicurare che quei libri non li leggerebbero nemmeno per amicizia, nemmeno per amore del povero. Semmai, leggono saggi. Eppure quei libri si vendono. Forse li comprano gli ospedali; ma resta il dubbio – non si è mai sicuri – che esistano davvero centocinquantamila ospedali. Le carceri? I conventi? I movimenti studenteschi?

Fa impressione passare da questi premiati aborti di plastica, per quanto come la plastica tersi, malignamente detti o motteggiati "i più venduti", a un romanzo per nulla terso come Maestro del passato, di Raphael A. Lafferty. Per cominciare, il protagonista è Tommaso Moro, il santo che per scherzo inventò il comunismo ma per ben altri motivi perse la testa. La storia si svolge su un altro pianeta, Astrobia, dove qualcosa dell'Utopia ha preso forma, col raro risultato che la gente volta le spalle al benessere e cerca la sporcizia, il pericolo, gli stenti. Ciò accade in un avvenire lontanissimo: i capi del pianeta, che possiedono indescrivibili poteri, per risolvere i loro problemi fanno tornare dal passato un uomo giusto, un uomo capace, come lo fu Tommaso Moro, di dire di no al momento necessario. Nelle parole di Valla, «è una riflessione di metafisica della storia; è un'allegoria della società moderna; è un romanzo cattolico conservatore; è la ripresa di un'idea di Luciano che poneva Platone come unico abitante della sua Repubblica; ed è una difesa della forza dell'irrazionale contro la ragione esclusiva». Non è d'altronde necessario condividere la non tanto complessa tesi dell'autore del libro per trovare avvincente la sua lettura.

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