La statua

Il vento freddo ha spopolato le strade; nella notte, i giardini bui sembrano aspri rifugi, per chiunque abbia qualcosa da nascondere, il corpo o la coscienza. Brasco vede un cancello aperto; entra in un giardino di oleandri, con palme e alberi di alto fusto.

Tra le palme scorge una statua grigia; è una donna gigantesca, seduta, la testa seminascosta tra i rami di un ippocastano. Attratto dal calore che la statua irradia, Brasco ci si arrampica e si siede sulle ginocchia della donna. Il vestito è un vero vestito di stoffa, le membra della statua sono morbide e diffondono un odore che Brasco crede di riconoscere; finalmente capisce che è l'odore familiare di sua madre. Commosso, come usava fare da bambino, cerca il grembo caldo e ci si rannicchia; con la mano sinistra si aggrappa alla stoffa e sotto le dita ritrova il ventre molle, palpitante di vita generosa. Così annidato, Brasco non sente più il vento freddo che scuote i palmizi; con la testa appoggiata su quel ventre, delicatamente mosso da una respirazione regolare, si sente perdonato. La dolcezza del perdono lo fa piangere, un pianto in cui si sciolgono anni di disperazione, di umiliazione e solitudine. Dimentico, protetto, a poco a poco piangendo si addormenta. Ma non appena si è addormentato, sogna, e nel sogno ritorna alla sua povera camera d'affitto; rassegnato, mangia il pranzo freddo che gli hanno lasciato sul tavolo, poi si corica nel suo lettino stretto, come uno che si coricasse in una tomba.

 

J. Rodolfo Wilcock
Lo stereoscopio dei solitari, Adelphi 1972, 1990, 2017

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